Come saremmo, noi esseri umani, se non avessimo mai inventato gli alibi?
La cultura degli alibi è una definizione creata da Julio Velasco, famoso allenatore argentino che - tra i suoi innumerevoli successi - nel 1990 portò la nazionale di pallavolo maschile italiana da fanalino di coda a campione del mondo, e che recentemente ha vinto l'oro olimpico, con la nazionale di pallavolo femminile italiana, a Parigi 2024.
Velasco racconta che, quando prese le redini della nazionale di pallavolo maschile, gli furono fornite dalla federazione e dai responsabili del team, argomentazioni serie ed autorevoli sulla impossibilità di portare la pallavolo ad alti livelli, almeno nel breve periodo. All'epoca, la cultura degli alibi era però molto presente anche all’esterno, nel mondo sportivo. Si analizzava sempre il perché non si possono fare le cose e non com’è la realtà. I cronisti e i critici sportivi azzardavano le ipotesi più assurde per giustificare la nazionale di pallavolo: ”i latini sono creativi ma non si concentrano", "il problema è che si fa poca ginnastica a scuola", "bisogna cambiare le regole del gioco”. Insomma si erano trovate giustificazioni per tutto e per tutti, e ci si era impantanati in una confort zone che non permetteva di vedere la ragione più semplice e scontata della situazione volley in Italia: non si vinceva perché si giocava peggio degli altri ("Mettiamo come ipotesi che il motivo per cui perdiamo è che non giochiamo bene, che è per questo che perdiamo?").
A questa premessa seguì poi un'altra incredibile rivelazione: Velasco scoprì, in campo, che la squadra non vinceva "per colpa dell’elettricista". Pare un’assurdità ma ogni giocatore giustificava i propri errori dando la colpa a chi gli passava la palla. Quindi gli schiacciatori dicevano che gli alzatori non passavano palle buone, gli alzatori dicevano che i ricevitori non passavano loro palle buone finché il ricevitore (non potendo dare la colpa all’avversario per aver effettuato un'ottima battuta) diceva che a volte i fari del campo gli davano fastidio. Quindi era colpa dell’elettricista! E il circolo degli alibi era chiuso.
Dalla cultura degli alibi Velasco passò subito alle contromisure. Ruppe il flusso di alibi interno al team ("Non parliamo più di quello che fanno gli altri") e stimolò i giocatori all'azione ("Schiacciare su alzate perfette è facile ma correggere una palla imperfetta è da professionista, è da campione"). Quindi chiese a tutti i suoi atleti di non giudicare come giocavano i compagni e di concentrarsi solo sul proprio gioco, sul proprio ruolo, provando a migliorare (per quanto possibile) le qualità in cui già eccellevano, piuttosto che lavorare duro sulle loro debolezze ("Se ciascuno migliora poco, la squadra intera migliora tanto").
Le ragioni
Noi umani, ogni volta che ci sentiamo "accusati" di un errore attiviamo un meccanismo di difesa, perché lo leggiamo come nostra INCAPACITÀ e non come PARTE NATURALE DEL PROCESSO DI APPRENDIMENTO. E non si tratta solo di difendere l'orgoglio: la nostra natura ci spinge a mantenere il minor livello di energia possibile, quindi REAGIRE scaricando il problema risulta molto più efficace che AGIRE per migliorarsi.
L'errore è sano, ed indispensabile per la nostra formazione. Ci poniamo automaticamente dei limiti quando iniziamo a temere l'errore piuttosto che celebrarlo. Provate a pensare ai bambini, non imparano forse dal commettere errori e dall'incoraggiamento che ricevono dagli adulti? Come lo stesso Velasco sottolinea, quando un bambino pronuncia (malissimo) la sua prima parola, non viene forse considerato un genio?
L’alibi è insano, è un pretesto che diventa un argomento di difesa con cui una persona mira a dimostrare di non essere responsabile dell’errore.
Da tutto questo nasce la cultura degli alibi.
Il cambiamento
Si stava meglio prima, quando tutto andava bene! C’è sempre un sottofondo di nostalgia rispetto al passato e questo perché ci arrabbiamo quando le cose cambiano. La nostalgia è solo la paura di dover cambiare e questo ci porta a ricordare solo le cose belle.
Ma in realtà noi siamo creati per cambiare, quando c’è un ostacolo reale e oggettivo bisogna adattarsi. La nostra evoluzione sta tutta in questa nostra capacità. Per questo dobbiamo promuovere il passaggio dalla cultura degli alibi alla cultura dell’adattamento al cambiamento.
La mentalità vincente
Non si sa bene cosa sia e dove si trovi ma si vede se qualcuno ce l’ha. Secondo Velasco sono tre le componenti che creano una mentalità vincente:
- Le capacità interne, le risorse che ho dentro che generano determinazione. Se so chi sono sono spinto ad agire;
- Fiducia, contro la voglia di rassegnarsi, sia verso di me ma soprattutto verso gli altri. Il gioco di squadra significa rispettare i ruoli e stabilire come cambiarli (avere un piano B e contare su chi mi sta a fianco). Ma non solo, il gioco di squadra deve convenire a tutti perché conduce alla vittoria e per fare ciò occorre tattica che significa nascondere i propri difetti ed evidenziare quelli dell’avversario;
- Orgoglio, voglia di vincere:
- VINCERE contro i nostri limiti personali
- VINCERE contro le difficoltà quindi imparare ad adattarsi
- VINCERE contro l’avversario.
Ma questo significa anche sapere perdere quindi accettare che l’altro abbia fatto meglio di noi e non per questo tornare alla tentazione dell’alibi, altrimenti tutto diventa una bugia.
Conclusioni
A volte siamo attori e a volte siamo spettatori della cultura degli alibi. Resta il fatto che un alibi non ci porta molto lontano.
Tempo fa sentii un’intervista di Simone Moro, uno dei più grandi alpinisti italiani, in cui disse una cosa che mi colpì moltissimo: "L’errore è solo il posticipo del successo".
Se ci pensiamo bene, l’errore è esattamente questo, apprendere una via migliore per raggiungere i nostri obiettivi. E la paura dell'errore non deve farci rinunciare al gioco, perché in realtà quando giochi non perdi mai. O vinci o impari.
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